
L’aria è fredda, risuona solo di un rumore acuto, sembra il ronzio amplificato di un insetto, invece è Michele che passa tra i filari controllando pianta per pianta, è il periodo della potatura della vite.
Il lavoro è abbastanza automatico e mentre lo esegue mi racconta dellla miriade di malattie che possono danneggiare le piante di uva da vino e quello che si può fare per tentare di lottare contro di loro. Rimango impressionata dal numero di piante che devono essere eliminate a causa di una o dell’altro parassita. Scopro dell’impiego dell’olio essenziale di arancio dolce, approvato per uso agricolo ed ammesso in agricoltura biologica.
Infatti il vino che Michele ottiene dai suoi vitigni è biologico, anche se lui non lo dichiara neanche in etichetta, lo considera il solo modo di produrre vino, anche per la vicinanza di tante acque preziose per il territorio.
I terreni infatti sorgono intorno al paese di Tenna, aggrappato alla collina che divide due laghi, quello di Levico e quello di Caldonazzo.
Ci troviamo in piena zona Trento DOC, davanti il lago di Caldonazzo e le montagne che regalano non solo una bellissima vista, ma anche qualità uniche alle condizioni nelle quali crescono le viti. Dietro al desiderio di fare il vino di Michele, si nasconde un progetto di amplissimo respiro, scopro. La nuova cantina che ha in mente di costruire, è stata progettata da lui stesso. Gli mancano due esami per una laurea che probabilmente non avrà tempo di prendere, viste le scelte di vita prese nel frattempo.
Da questo breve incontro usciamo entrambi con la convinzione di vedere molte cose in modo simile, c’è sintonia, il tipo di sintonia essenziale per il mio modo di fotografare e raccontare un progetto lavorativo. In vigna con noi c’è anche suo papà, che osserva divertito mentre estraggo una macchina fotografica analogica, che mi sono portata dietro per finire un rullino. Mi racconta di avere centinaia e centinaia di diapositive a casa, soprattutto delle sue avventure alpinistiche. Mentre me lo dice gli brillano gli occhi ed io sorrido perché la fotografia serve proprio a questo: comunicare per cosa brillano i nostri occhi e cercare di rendere quel brillìo contagioso.




