Perfect days: la recensione di una favola analogica ed essenziale a cura di una fotografa
Credo che Perfect Days sia stato scritto per me, voglio farne una recensione a caldo, dopo averlo visito ieri sera al cinema Modena di Trento. Un piccolo preambolo da nerd analogici: tutte le foto che vedete in questo articolo sono state fatte con una macchina punta e scatta a rullino, modello abbastanza simile alla Olympus Mju I che vedete nel film tra le mani di Hirayama, il protagonista.
Dopo ormai un anno di prove con rullini a diversa sensibilità volevo proprio dedicarle un articolo, immagino che troverà abbondante menzione già in questo. Piccola digressione su questo tipo di macchinette: la Mju che vedete nel film, insieme alla sorella più giovane Mju II, godono sul mercato di una rinnovata giovinezza che ha mandato i prezzi per queste macchinette alle stelle, facendole costare, in diversi casi, sicuramente più del loro prezzo originario d’uscita. Sono cosiddette point&shoot, ovvero apparecchi completamente automatici, fino a non molto tempo fa piuttosto disprezzati dai fotografi professionisti o dagli amatori impegnati. La loro fama, se le conoscete o le avete viste nel lavoro di Wenders, risiede in due fattori: la qualità della lente integrata e la loro dimensione adatta al taschino della divisa, come a quello dei jeans o della giacca.
Ma ci torneremo più tardi. Dicevo che Perfect Days mi è sembrato esattamente un film fatto su misura per me. Richiude in sè così tanti di quelli che sono i valori umani, oltre che lavorativi, che mi ispirano e che cerco di fare miei. Hirayama è un addetto alle pulizie dei bagni di Tokyo. L’inizio del film è scandito dalle canzoni (il link è la playlist Spotify della colonna sonora) che accompagnano il suo tran tran quotidiano di scapolo dalla vita apparentemente noiosa e monotona. La sveglia, lo spruzzino sui bonsai, l’aggiustamento dei baffi e la rasatura della barba, poi il turno, il pranzo consumato al giardino sacro, il bagno pubblico, il pasto nella stazione della metro, il giorno libero votato al lavaggio degli abiti del lavoro, lo sviluppo del rullino ed il ritiro di quello della settimana precedente, il pasto alla izakaya dove c’è una donna, la proprietaria, che capiamo essere forse custodita nel suo cuore. Quello che Hirayama però non può controllare o in qualche modo programmare, sono gli esseri umani, le relazioni.
Sono proprio le persone che gli ruotano intorno a dare uno scossone (beh si fa per dire) al film. Il giovane collega, Takashi, che continua a parlare a macchinetta e che continua a chiedergli il perché di tutta quella cura nel pulire i bagni. La fiamma di Takeshi, che non pare realmente interessata a concretizzare la loro relazione, che però viene fulminata dall’esperienza dell’ascolto di una cassetta musicale a bordo della scatoletta giapponese che è il furgoncino di Hirayama. Amy viene così colpita da Patti Smith che risuona nella scato…ahem macchina da rubare la cassetta, salvo poi riportarla al proprietario con tanto di bacio di gratitudine sulla guancia. E ancora la nipote che scappa di casa presentandosi da lui, il confronto con la sorella, che introduce il passato di questo uomo inizialmente ed apparentemente privo di legami, che si lascia ad un pianto dopo gli abbracci prima con la nipote, poi, a sorpresa, con la sorella che iniziano a sciogliere, intuiamo, alcuni nodi. Tutto culmina, almeno per la mia sensibilità, nel dialogo bellissimo, nervoso, commovente prima, ridicolo poi, con l’ex marito della donna di cui Hirayama parrebbe essere innamorato.
Non ricordo le esatte parole ma qualcosa come:
ex-marito gestrice ristorante: “le ombre…diventano più scure quando si sovrappongono? (nell’originale in inglese credo venga usato il termine “overwritten” con chiaro riferimento fotografico alle ombre che intervallano il film con delle doppie esposizioni in bianco e nero, le stesse ombre che Hiramaya tanto osserva e cerca di catturare con la piccola macchina fotografica). Ci sono ancora così tante cose che non so”
Hirayama: immagino sia così la morte, con tante cose che ancora non sappiamo
ex marito: immagino di sì (poco prima ha rivelato la sua malattia in fase terminale)
H: scopriamolo!
e si mettono a giocare con le loro ombre proiettate sull’asfalto.
Questo film, come dico nel titolo del presente articolo, è una delicata fiaba, un inno ad una vita essenziale, attenzione essenziale, non priva di interesse o di errori e ferite. Hirayama è un uomo assolutamente analogico: le cassette musicali, la macchina a rullino, il libro di carta alla fine della giornata. Forse non se ne accorge nemmeno, ma queste abitudini analogiche, quindi per definizione fisiche, gli permettono di sviluppare una grande attenzione a tutte le piccole sorprese delle sue giornate solo apparentemente ripetitive. Ad esempio lo scambio di sguardi col bambino che ha perso la mamma al parco, la vista dell’amicizia tra Takeshi ed un bambino down, lo sguardo perso della ragazza che al parco mangia sempre alla panchina vicina, il senzatetto che vede mondi invisibili, la partita a tetris a distanza con qualche sconosciuto/a tramite un foglietto lasciato in uno dei bagni che Hirayama pulisce. Tutto questo capita perchè comunque il protagonista ci stupisce aprendosi alla possibilità dei piccoli imprevisti che possono scuotere una vita.
Un’altra questione sacrosanta che il mondo analogico aiuta ad annunciare è il fatto che nell’imperfezione c’è salvezza. Questo film è un canto alle imperfezioni della vita, le fotografie che strappa Hirayama hanno strappato invece a me un sorriso, quante fotografie non importanti scatta una fotografa come me ogni giorno, o almeno rischia di farlo. La fotografia analogica (ne parlo spesso) educa il fotografo (che sia professionale o no) ad uno sguardo essenziale e di questo me ne accorgo spesso, per questo dico che la fotografia analogica mi rende una fotografa migliore. Le macchine point&shoot hanno il particolare pregio di liberare la testa da tutti i ragionamenti sulle impostazioni necessarie normalmente quando si scatta in manuale, lasciando tutte le attenzioni su quello che sta accadendo prima e sulla composizione dello scatto poi.
Mi ha fatto anche sorridere, a proposito di imperfezione, la foto che Hirayama scatta alla nipote, che esce tutta sfuocata, rischio tutt’altro che poco frequente con questo tipo di macchinette. Di nuovo, l’imperfetto perfetto.
Spero di non aver spoilerato troppo in questa recensione e spero davvero che correrete a guardarlo al cinema se già non l’avete fatto e forse che compriate un mangiacassette, o un giradischi ed una macchina fotografica analogica.
Alla prossima!